Le faggete vetuste dell’Appennino centrale (I parte)

Quando, circa 35 anni fa, iniziai a girovagare per le foreste del Mediterraneo, mi capitava spesso di imbattermi in qualche lembo di bosco più imponente degli altri. Destava in me meraviglia il contrasto netto che c’era tra i boschi più conosciuti e questi frammenti isolati di foresta, in genere faggeta o abetina, denotato dalla presenza di alberi imponenti che donavano al bosco un fascino indubbiamente primordiale. Negli anni successivi, leggendo i primi libri di selvicoltura generale e speciale, appresi che spesso si trattava delle cosiddette “fustaie di protezione”; una striscia di bosco profonda al massimo 100m posta al margine superiore superiore, trattata a taglio saltuario oppure, come nella maggior parte dei casi, abbandonata a se stessa. Nei primi anni del Novecento, sopravvivevano ancora anche lembi di faggete e querceti blandamente utilizzati nei secoli precedenti e quindi ancora di aspetto solenne e “selvatico”. Questi pochi sopravvissuti, tecnicamente e prosaicamente definiti “fustaie stramature”o “fustaie invecchiate”, non ebbero scampo nel ventennio fascista. Nei testi e nelle descrizioni dei soprassuoli presenti nei piano di assestamento forestale dell’epoca, queste formazioni marginali venivano sovente descritte come qualcosa di sporco o comunque da epurare. Non dimenticherò mai l’attribuzione che fece un noto forestale del Ventennio nei confronti del bosco, allora ancora pressoché intatto, del Gariglione, in Sila Piccola (CZ). Nello scritto c’era una frase il cui senso si può riassumere in queste poche ma efficaci parole: un bosco che attende la mano del chirurgo per essere rinnovato e perpetuato. In questo pensiero si riassume la cultura forestale di quegli anni, purtroppo sopravvissuta al Ventennio fascista ed alla proclamazione della Repubblica. Subito dopo la II guerra mondiale iniziò una campagna di utilizzazioni forestali senza precedenti. La ricostruzione ed il pagamento dei danni di guerra esigevano quantità di legname immani e per questo motivo anche quei boschi che fino ad allora erano rimasti relativamente indenni perché antieconomici (macchiatico negativo), e sopravvissuti all’autarchia fascista, vennero pesantemente sfruttati. Molto probabilmente, in assenza di questi tagli, non avrei notato l’esistenza di questi boschi secolari ed oggi nessuno parlerebbe di foreste vetuste appenniniche. A questo punto sorge la domanda cosiddetta da “100 milioni”. Per quale motivo, visto che tagliarono intensamente quasi tutti i boschi appenninici, questi lembi sono stati risparmiati ? La risposta è squisitamente tecnica. Infatti, tutti questi lembi di bosco, generalmente faggete, sono stati risparmiati perché trattasi di “fasce di protezione”, che di norma dovrebbero essere previste in ogni utilizzazione forestale. Ho scritto volutamente di “norma” poiché tale fascia di rispetto, prevista dalle norme selvicolturali, non è sempre stata lasciata oppure quella lasciata non era di dimensioni significative. Spesso, infatti, tale fascia di protezione era ridotta ad una sottile striscia profonda poche decine di metri e costituita da alberi storti e malandati, in gergo forestali detti “difettosi”. Un esempio classico e visibile a tutti i frequentatori della montagna, meritevole di una visita per la presenza di esemplari monumentali di faggio e acero, si riscontra sul versante occidentale del M.Viglio, in comune di Filettino (FR). Talvolta, la striscia era talmente sottile da impedire perfino la rinnovazione degli alberi che così rimanevano isolati e lentamente deperivano, ma capitava anche che la fascia di protezione non venisse affatto rilasciata e quindi il bosco veniva facilmente falcidiato dagli agenti atmosferici e retrocedeva verso livelli altimetrici inferiori, lasciando come testimoni isolati esemplari nelle praterie altomontane (vedi il margine superiore del Bosco della Martese). Tuttavia, il fatto che i selvicoltori lasciassero una fascia superiore di protezione non significava che automaticamente il bosco fosse protetto poiché in Appennino c’è stato un altro agente fortemente modellatore della silvosfera: il pascolo. Da millenni sulle nostre montagne pascolano le mandrie degli animali allevati dall’uomo. Per facilitare la nutrizione è stato necessario sacrificare imponenti estensioni di bosco, soprattutto nei versanti che meglio si prestavano a fornire un buon foraggio per gli armenti. Una volta liberate le zone migliori gli animali, complice il severo clima mediterraneo che in estate fa virare il colore dei pascoli verso il giallo acceso, sono stati costretti a cercare una fonte di nutrimento costantemente presente in estate, ovvero le foglie degli alberi. Naturalmente, non potendo arrampicarsi sugli alberi per brucare le foglie dei rami più alti, gli animali si sono ovviamente rivolti verso le foglie più accessibili, ovvero quelle della rinnovazione degli alberi adulti. Questo processo è andato avanti per secoli, tra periodi di calo del pascolo in cui i giovani alberelli riuscivano a crescere abbastanza indisturbati, e periodi di notevole pressione sul bosco in cui la rinnovazione mancava per decenni o anche per un secolo e più.

 

Da questo ne deriva una fisionomia del bosco abbastanza tipica che in alcuni casi è giunta fino a noi. Infatti, in alcune zone del Parco Nazionale d’Abruzzo, una regione abruzzese dove maggiormente si è conservata la copertura forestale originaria, ci sono ancora lembi di bosco che conservano in bella mostra le tracce delle alterne vicende pastorali. Sono lFaggete vetuste Parco Nazionale d'Abruzzo e Moliseembi di faggeta posti a contatto con i pascoli sommitali. Oggigiorno, questi lembi di faggeta sono composti perlopiù da alberi plurisecolari, con esemplari che raggiungono e superano i 500 anni (Piovesan et al., 2003, 2005),  con rinnovazione quasi sempre copiosa e vigorosa, come ad esempio in Val Cervara, in comune di Villavallelonga (AQ). In questo lembo di fustaia di protezione la struttura è generalmente biplana, ovvero composta di uno strato dominante di vecchi faggi ed uno dominato di faggi nettamente più giovani. Qua e là ci sono anche settori con strutture più disetanee, ma rimane sempre evidente l’impronta dell’uomo. Infatti, ad un occhio attento non può sfuggire il fatto che gli alberi più vecchi siano quasi sempre equidistanti e pressoché coetanei e questo è il “marchio” che permette la rapida identificazione della tipologia del bosco, ovvero quello di una vecchia fustaia di protezione, tagliata con taglio “a scelta” oppure lasciata al suo destino ma pascolata. Le piante presentano tutte la classica “sgorbiatura”, incisa sul tronco, della misurazione effettuata dai tecnici forestali durante la redazione del piano d’assestamento, oltre ad alcune scritte incise dai pastori e boscaioli, che ci suggeriscono anche l’anno in cui è stata effettuata: il 1951 e 1953. In alcuni casi fortunati, le immagini di repertorio permettono di comprendere il processo che ha prodotto l’attuale fisionomia del bosco. Ad esempio, in una foto del 1930 che riprende sempre la faggeta di Val Cervara (Villavallelonga, AQ), si vede benissimo l’esito del pascolo sul bosco, con il margine superiore della faggeta molto rado, soprattutto in corrispondenza dei sentieri che percorreva il bestiame per recarsi presso una sorgente stagionale (Sorgente Puzza), oltre ferite inferte al bosco dalla caduta delle valanghe durante il sisma marsicano del 1915. Attualmente, scomparsi i sentieri, ridotti ad una labile traccia che taglia tutto il bosco a 1800 m (utilizzata dai cervi per recarsi alla sorgente Puzza), colmate le chiarie e ricompattato il margine del bosco, riuscirebbe difficile immaginare uno scenario tanto diverso. Eppure, sono passati solamente 74 anni, un’inezia per un albero.

La faggeta di Val Cervara nel 1982

La faggeta di Val Cervara nel 1982

La dinamica che ha portato il bosco ad assumere la classica fisionomia di fustaia coetanea invecchiata a densità ridotta potrebbe aver percorso due vie: la prima, quella più scontata, è prodotta dal pascolo il quale, nel corso dei secoli, ha ostacolato la rinnovazione del bosco e quindi la sua rarefazione per progressiva decadimento dei singoli alberi, non più sostituiti da giovani esemplari; la seconda potrebbe comprendere sia un esito da taglio raso con riserve, fatto questo acclarato anche da ragioni storiche, sia un successivo intervento della prima ipotesi. Diciamo che l’una non esclude l’altra ed entrambe sono integrabili perfettamente. Fatto è che sulle montagne abruzzesi le faggete più invecchiate e suggestive si trovano pressoché interamente al margine superiore del bosco, a stretto contatto con le superfici adibite a pascolo estivo.

Nella valle Peschio di Iorio, sotto il M. La Rocca (Balzo Travaglioso e Coppo del Principe), in comune di Pescasseroli si può vedere ancora l’esito che hanno avuto i tagli a raso della Legge Borbonica del 1826 integrati dall’allora intenso pascolo.

La faggeta di Balzo Travaglioso tagliata secondo la Legge Borbonica

La faggeta di Balzo Travaglioso tagliata secondo la Legge Borbonica (*)

Questo sito è interessante perché a pochi metri di distanza coesistono ambiti forestali nettamente diversi. In alto, il bosco è stato pressoché annientato da un solerte ed intenso taglio a raso, probabilmente verso la metà del XIX secolo (Legge Borbonica 1826), mentre pochi metri più in basso lo stesso taglio non ha avuto esiti tanto drastici e questo perché la differente morfologia (una docile conca di origine glaciale) da un lato ha favorito l’ingresso e la persistenza del pascolo, mentre dall’altro, il pendio più acclive sottostante ne ha scoraggiato la frequentazione. Nel fondovalle si ripropone lo stesso schema della parte superiore, con grandi faggi isolati nella valle, circondati da copiosa rinnovazione, tutta più recente del 1950. Di questo bosco vi sono diverse immagini di repertorio molto interessanti. In un paio del 1900 circa, si vede il bosco molto rado e senza rinnovazione mentre le faggete retrostanti sono ancora integre (utilizzate in gran parte tra il 1930 ed il 1960). Attualmente, cessato il pascolo, la faggeta non è ancora riuscita a ricucire completamente lo strappo a causa di fattori ambientali limitanti, quali ad esempio la permanenza della neve nella parte meno acclive. I vuoti sono stati occupati dal Ramnus alpina, che (molto) lentamente prepara il reingresso della faggeta. Sui monti del Parco d’Abruzzo si trovano anche residui di fustaie di faggio coetanee trascurate dai tagli del 1940-60. Due bei esempi si trovano in Valle della Corte (Pescasseroli, AQ), in sinistra idrografica, sempre al margine superiore del bosco. Sono due nuclei di modesta estensione, ancora a densità colma, con piante diritte e poco rastremate, spesso sciabolate e non utilizzate durante le grandi campagne di taglio degli anni 1930-50. Sono pochi nuclei di faggeta ancora densi e ricchi di provvigione legnosa, riccamente pascolati dagli ungulati. Tre nuclei si trovano in sinistra idrografica ed uno in destra idrografica, non lontano dalla vecchia cava. Il portamento dei faggi è ottimo ma le dimensioni raggiunte dagli alberi non sono notevoli. Mancano quasi del tutto piante di grosso diametro, presenti solamente al margine del nucleo in destra idrografica. Un altro nucleo si trova sulla dirimpettaia cresta del Monte Palombo. Anche in questo caso si tratta di una fustaia coetanea, derivata da un taglio a raso del XIX secolo, di cui rimane ancora una grossa riserva. L’esposizione è a NE nel primo caso e SE nel secondo; entrambe si trovano ad altezze comprese tra i 1700 ed i 1800 m di altezza. Nella fustaia del M.Palombo l’altezza dei faggi supera i 20-25 m e la forma delle piante è ottima, considerata la quota. Grazie ad una pendenza del sito moderata, modesta è anche la sciabolatura. Qualche decennio fa è estato effettuato un modesto taglio che non ha inciso nella struttura del bosco, che rimane uno dei pochi esempi di fustaia di faggio coetanea a densità colma di alta quota dell’Appennino centrale. La presenza di questi interessanti residui di vegetazione è sempre puntiforme ed è la naturale conseguenza di utilizzazioni di tipo “industriale”, ovvero utilizzazione effettuate su larga scala mediante l’utilizzo di strumenti meccanici (decauville, teleferiche). Paradossalmente, proprio la meccanizzazione delle utilizzazioni forestali, con la sua concentrazione nelle aree più ricche di provvigione legnosa e laddove l’esbosco risultava più veloce, ha permesso a qualche sporadico e modesto lembo di faggeta di sopravvivere. In particolare, nella zona compresa tra il M. Marsicano e la Terratta si trovano nuclei di faggeta molto interessante. Questi boschi sono stati pressoché interamente tagliati a raso con riserve nel periodo compreso tra il 1890 ed il 1910-20 e successivamente trattati a scelta, con ampie zone sgomberate delle riserve ottocentesche dopo il 1946.

Fustaia plurisecolare sulla Terratta (Bisegna, AQ)

Fustaia plurisecolare seminaturale sulla Terratta (Bisegna, AQ)

Si ignora lo stato precedente dei boschi, ma è verosimile che la Legge Borbonica abbia avuto applicazione soprattutto nella fascia altimetrica compresa tra i 1300 ed i 1700 m poiché a queste quote se ne intravvedono ancora gli esiti e ne rimangono ancora diverse riserve monumentali, mentre più in alto e più in basso le diverse condizioni del bosco, assenza di faggi monumentali in alto e condizioni di bosco degradato in basso, ne confutano l’applicazione. A giudicare dalla notevole presenza di stazzi in quota è assai verosimile che l’agente perturbante principale delle faggete di quota fosse, anche in questo settore, il pascolo. Comunque sia, sul versante settentrionale del M. Palombo si trova una piccola striscia di fustaia di protezione non utilizzata nel 1956 con piante molto belle e slanciate, alcune senza la sgorbiatura sui tronchi, fatto questo che conferma, a differenza di altre località la sua condizione di seminaturalità. La struttura è disetanea e la statura raggiunge i 25 metri. Le piante più grandi misurano 70-80 cm di diametro che, considerando la quota di 1925-1950 m, indica un’età delle piante piuttosto avanzata. Subito a valle del nucleo la faggeta si interrompe bruscamente in un popolamento coetaneo maturo ed una fustaia biplana con rinnovazione aduggiata, classica struttura delle faggete del Parco mai sgomberate, mentre sulla destra si continua in una perticaia molto densa, di recente insediamento, con piante sciabolate. Nella zona si trovano anche rari esempi, sempre su superfici molto limitate, di faggeta non martellata. Una sottile striscia si trova sotto il versante occidentale della Terratta (2208 m, Bisegna, AQ), dove la faggeta raggiunge in massa comodamente i 2000 m di altezza, altitudine record della specie per l’Appennino centro settentrionale. Si tratta, come già detto prima, di fasce di protezione di aspetto cadente, ma molto interessanti perché, a differenza di altri siti, prevale l’aspetto caotico dei boschi naturali, con esemplari simpodiali e distribuzione delle piante casuale o per aggregati. Non sono presenti né ceppaie né aie carbonili. La necromassa è sempre discretamente presente. E’ interessante il fatto che in questa zona sia in corso una lenta risalita del bosco verso livelli altimetrici superiori. E’ difficile stabilire se tale processo sia stato innescato dal riscaldamento globale oppure per cessato disturbo antropico. A giudicare dall’età delle piante opterei per la seconda interpretazione. Altri esempi di fustaia plurisecolare si trovano in abbondanza nelle faggete della lunga cresta Monte Valle Caprara / Monna Rapanella, quasi tutte in comune di Lecce nei Marsi (AQ) e spesso fuori i confini del PNA. Non si tratta di faggete naturali né seminaturali, ma di fustaie plurisecolari tagliate nei modi più disparati, dai tagli successivi al taglio a raso con riserve, con abbondanti “avanzi” della Legge forestale del 1826 e tutte ampiamente pascolate. La loro utilizzazione è stata subordinata alle esigenze del pascolo e quindi è probabile che l’aspetto di molti tratti di bosco sia stato determinato in realtà dalla degradazione operata dagli armenti (es. “Giardinetto”). Sulle creste ci sono molti resti di stazzi e recinti per animali. L’età di queste faggete è indefinibile ma è probabile che alcuni esemplari superino agevolmente i 400 anni di età. I nuclei più interessanti si trovano attorno alla sopracitata dolina del Fontecchia ed attorno il M. Prato Maiuri (1899 m). Sparsi nel bosco vi sono degli autentici colossi vegetali; faggi imponenti che superano i 30 metri di altezza, come nei dintorni delle Neviere di Val Mugone e nella Selva di Moricento. Sotto la vetta del M. Fontecchia (1932 m) c’è persino un ceduo monumentale, con polloni enormi, di età indefinibile ma certamente superiore ai 250-300 anni. Qualche tratto sotto la Rocca Genovese è meglio conservato degli altri e, molto probabilmente, ha subito una sola utilizzazione; in particolare il lembo di protezione posto sopra il Camposecco, conca carsico-glaciale situata tra la Rocca Genovese (1949 m) ed il M. Marcolano (1945 m). Le piante sono slanciate e la struttura è tendenzialmente monoplana a profilo coetaneo. Le piante presentano le sgorbiature sui tronchi e la necromassa è sempre presente. Non ci sono né aie carbonili né ceppaie, ma è anche vero che le aie carbonili difficilmente si trovano nelle fustaie sommitali (1800-1850 m). Di norma, i popolamenti più vecchi si trovano nelle zone meno fertili poiché lo sgombero delle riserve, effettuato negli anni ’60 del secolo scorso, ha interessato solamente le zone più fertili e comode, laddove la rinnovazione era già affermata. Con il calo del pascolo, ora totalmente assente in quest’area, la rinnovazione è iniziata anche nelle zone rocciose, anche se non è incipiente. Lo stato attuale di questi boschi è di totale abbandono e per questo motivo se ne consiglia caldamente la visita. Non vi sono sentieri tracciati degni di questo nome e la “navigazione” nel bosco è a vista. La sensazione di Wilderness è totale e le emergenze naturali sono notevoli: inghiottitoi, grotte, neviere, faggi colossali. Ce n’è per tutti i gusti, decisamente !

(continua)

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Piovesan G., Bernabei M., Di Filippo A., Romagnoli M., Schirone B., 2003 – A long-term tree rinch beech chronology from a high-elevation old growth forest of centrale Italy. Dencrochronologia, 21: 1-10
Piovesan G, Di Filippo A., Alessandrini A., Biondi F., Schirone B., 2005 – Structure, dynamics and dendroecology of an old-growth Fagus forest in the Apennines. Journ. of Vegetation Science, 16: 13-28
Susmel L., – 1980. Normalizzazione delle foreste alpine. Liviana Editrice

(*) Foto presa dal sito http://terrepesculiasseroli.it Per gentile concessione

NOTA DELL’AUTORE: Tutte le informazioni esposte nel presente lavoro sono già state pubblicate nel libro:  L’importanza degli alberi e del bosco : cultura, scienza e coscienza del territorio

http://www.libreriauniversitaria.it/importanza-alberi-bosco-temi/libro/9788897372639

2 commenti

  • Riccardo Novaga ha detto:

    Salve Enrico, prima di tutto volevo farti i complimenti per questo splendido portale e per i tuoi interessanti articoli. Volevo anche chiederti, data la tua competenza, se posso contattarti via mail per un parere riguardo ad una faggeta dei Monti Lepini.
    Grazie in anticipo,
    Riccardo.

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